Dal 15 luglio al 14 novembre 2021 sarà visitabile, nelle sale al secondo piano del Museo Novecento a Firenze, la mostra “SOLO. Arturo Martini e Firenze”, a cura di Lucia Mannini con Eva Francioli e Stefania Rispoli.
Un’importante opportunità per visitatori e studiosi di vedere opere di grande interesse – alcune delle quali recentemente “riscoperte” – e di riconsiderare alcuni aspetti del percorso biografico e artistico dello scultore che emergono attraverso legami speciali, come afferma Lucia Mannini, curatrice della mostra.
L’esposizione è inserita all’interno del ciclo “Solo”, dedicato ai maggiori artisti del Novecento, e pensato per raccontare aspetti peculiari e meno noti della vita e della pratica di grandi protagonisti nella pittura e scultura del secolo scorso. Dal 2018 il Museo Novecento ha ospitato un gruppo ristretto di opere di Emilio Vedova, Piero Manzoni, Vincenzo Agnetti e Gino Severini, per citarne alcuni, affiancate a documenti e apparati esplicativi di vario genere, provenienti da Collezioni civiche o da prestiti concessi da Istituzioni e Collezioni private. Il progetto “Arturo Martini e Firenze” nasce in contemporanea alla grande retrospettiva dedicata a Henry Moore, scultore di grande rilievo nel panorama moderno e contemporaneo.
Una sfida difficile quella che decide di affrontare il Museo Novecento con questa nuova mostra: Martini è un artista noto a tutti, artefice di una scultura moderna che ha saputo mantenere vivo il mistero dell’arte, senza mai distaccarsi dalla figura e da alcuni motivi poetici a lui cari come quelli dell’attesa, della contemplazione, della trascendenza, come sottolinea Sergio Risaliti. Un artista studiato e divulgato in molti modi e in tante occasioni. Come fare quindi a renderlo ancora una volta in una chiave diversa? La risposta arriva da Firenze, afferma Lucia Mannini: dalla Collezione civica e da quelle opere giunte in città nel 1970 a seguito di un iter lungo e faticoso su donazione del collezionista Alberto della Ragione, invitato da Carlo Ludovico Ragghianti. Tra le 241 opere donate da questi alla Città di Firenze, all’indomani dell’alluvione del 1966, spiccano alcuni capolavori di Arturo Martini: La Pisana (1933 ca.), il Leone di Monterosso (1933-1935 ca.) e L’Attesa (1935 ca.), oltre a un nucleo di piccole terrecotte che analizzano la figura femminile, come Le collegiali (1927-1931 ca.), La cinese (1931-1933 ca.) e il Nudino sdraiato (1932 ca.). Un evento quasi paradossale, “di risarcimento” se si pensa al fatto che, proprio tra gli anni Sessanta e Settanta, vennero mandate via da Firenze altrettante sculture di Arturo Martini.
Così inizia questo viaggio alla scoperta di un autore centrale all’interno del panorama del Novecento europeo, che risuona quasi come un racconto. La scelta di calare nuovamente Arturo Martini a Firenze nasce in primo luogo dalla sua partecipazione a importanti esposizioni. In secondo luogo, dal fatto che egli sia stato spesso oggetto d’interesse da parte di collezionisti privati; molte delle opere dell’artista sono infatti cullate dal capoluogo toscano.
Passione per l’arte, frequenti conversazioni e visite di luoghi incredibili sono il collante dell’amicizia fra lo scultore e il poeta Roberto Papi, genero dei collezionisti, del quale Martini è stato ospite all’inizio del 1931. I due si sono conosciuti probabilmente nel 1922, quando lo scultore è protagonista della “Fiorentina Primaverile”, presentata da Alberto Savinio. Lucia Mannini racconta che Arturo Martini si sente accolto a Firenze, tant’è che persino la pioggia sembra cadere in maniera delicata. L’artista, in questo periodo lavora attivamente, realizzando numerose opere in terracotta e gesso. Lo stretto legame con Papi, considerato un “fratello” dallo stesso Martini, spinge quest’ultimo a decidere di lasciare nella villa nei pressi di Arcetri che lo aveva ospitato, Villa Fasola, una scultura in gesso ritenuta dispersa e che oggi, rintracciata, è presentata in mostra. L’Attesa o Susanna (1935 ca.) è infatti posta a cavallo tra le opere di Martini già parte della Collezione permanente del Museo Novecento e l’allestimento di questa mostra, dando luogo a un potente confronto e dialogo.

L’attesa o Susanna di Arturo Martini (1935 ca.), terraglia patinata chiara, Collezione civica Museo Novecento, Dono Alberto Della Ragione
Nel 1931 l’artista si trova ancora una volta a Firenze: vince il primo premio alla Quadriennale di Roma, al tempo ancora agli esordi. Martini si aggiudica così il ruolo di scultore italiano più in voga del momento e ipotizza, con i soldi ricavati dalla vincita, di acquistare un podere a Firenze. Le vicende della vita lo porteranno altrove, ma il rapporto con la città non si arresterà, perché ormai profondamente radicato nel suo cuore.
Tramite Roberto Papi infatti, nel 1932, Arturo Martini espone 17 delle sue sculture in una mostra nei locali della Galleria Bellini in Palazzo Spini Feroni, assieme al pittore Primo Conti. Una di queste opere è già presente in città, e più precisamente all’interno di Villa Vittoria dei Contini Bonacossi, attuale Palazzo dei Congressi. In questo luogo, tuttavia, si trova un ben più vasto nucleo di sculture di Martini. Si tratta della celebre Donna al sole, premiata alla Quadriennale di Roma del 1931 e oggi di proprietà privata. In quei giorni, all’interno della Galleria, si sono alternati capolavori del cinema, rappresentazioni teatrali e musicali, opere di arte contemporanea, artisti storici nazionali e internazionali. Sale gremite, tant’è che si descrivono quasi più le persone delle opere; c’era così tanta gente (borghesi, esponenti di cultura, giornalisti di tutto il mondo) che ad alcuni sembrava di essere a Milano o a Roma. Si racconta che alle Giubbe Rosse avessero dedicato poesie in rima a chi celebra e a chi denigra lo scultore, racconta Lucia Mannini. Molti gli aneddoti che ruotano attorno a questa mostra, che è stata un successo non solo nel panorama fiorentino ma anche nazionale, suscitando naturalmente anche molte invidie.
Ricordiamo che, in quel periodo, esplode il collezionismo con i suoi principali protagonisti, tra cui Roberto Papi, il gallerista Luigi Bellini, e ancora il celebre compositore fiorentino di origine ebraica Castelnuovo Tedesco. Il musicista, negli anni Venti, aveva scritto le Shakespeare songs: l’Ofelia di Shakespeare improvvisamente cantava. Da qui il desiderio dell’artista di acquistare l’emblematica Ofelia (1922) di Arturo Martini, una terracotta elegante, dolce, sensuale e tragica. La fanciulla è sospesa tra “la mente e la follia”: una spallina del suo abito cade e scopre il suo seno, il suo volto sembra rivolgersi verso l’alto, le sue braccia sono aperte e la sua bocca quasi socchiusa, come se da un momento all’altro dovesse iniziare a cantare. Scultura a noi nota grazie a una fotografia in bianco e nero del ’49. Castelnuovo Tedesco, costretto a lasciare l’Italia con la sua famiglia in seguito alle leggi razziali, aveva precedentemente messo in salvo tutti i suoi beni, tra cui anche quest’opera, nascosta dalla polvere del tempo. Il noto compositore, tornato a Firenze nel 1961 – anno in cui viene messa in scena una sua opera al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – acquista una casa assieme a sua moglie e rimette in luce le opere che i due avevano salvato. Ophelia lascia poi l’Italia e, a lungo conservata negli Stati Uniti, rientra per l’occasione a Firenze, tornando visibile dopo molto tempo.

Ofelia (1922) di Arturo Martini
Un rapporto di stima reciproca è anche quello che lega Arturo Martini al pittore Felice Carena, sin dai tempi del periodo trascorso assieme ad Anticoli Corrado. Testimonianza diretta in mostra ne è l’inedita versione in bronzo dell’Ulisse (1935) posto al termine della visita al Museo Novecento, donata da Martini a Carena e a sua moglie Mariuccia Chiesa probabilmente attorno alla metà degli anni Trenta. Periodo in cui il pittore, in risposta a un invito rivolto agli artisti italiani, riceve dallo scultore una sua opera grafica destinata all’Accademia di Belle Arti di Firenze, di cui era direttore all’epoca.
Il percorso della mostra si chiude con il ritrovamento di un’opera giovanile, l’Aratura (1906-1907), custodita in una raccolta privata fiorentina che conferma quanto il collezionismo locale possa ancora offrire spunti allo studio dell’opera di Martini e come il Museo Novecento possa restituire al pubblico un momento di ricerca.
“Una mostra nella mostra”: a partire da settembre è prevista l’apertura della sezione “Martini e Carrara” dedicata al rapporto tra l’artista e le Apuane. Come sappiamo da questo luogo, sin dai tempi dell’antica Roma, si estraeva il marmo statuario tanto amato dagli artisti per la sua luminosità e purezza. L’artista approda a Carrara a metà del 1937, in seguito al contratto firmato per la realizzazione di un grande bassorilievo, intitolato La Giustizia corporativa e destinato al Palazzo di Giustizia di Milano.
«Il passato è morto e con esso tutte le sensibilità, compresa quella greca, – afferma lo scultore nel 1943. – Viva la mia “Donna che nuota sotto acqua”».
Ed è proprio Donna che nuota sott’acqua (1941-42) un’altra importante opera esposta in mostra da settembre, una fanciulla dalle forme elusive e misteriose che fluttua sospesa nello spazio su tre perni metallici ideati dall’architetto Carlo Scarpa per la presentazione dell’opera alla Biennale di Venezia del 1942. Martini la considerava “il fiore delle sue ricerche”, tanto da citarla a più riprese nelle sue lettere. Infatti, la concezione della figura è riformulata in modo completamente nuovo ed è svincolata dai concetti di statuaria antica. Nata da uno scaglione del grande blocco del Tito Livio, l’opera in marmo era giunta alla rifinitura, quando Martini decideva di decapitarla con un colpo netto e spietato, creando così un effetto di assoluta incompiutezza e astrazione. La prima ispirazione per quest’opera, come si legge ne “L’arte del primo Novecento” di Federica Rovati, nasce dalla sequenza del film Ombre bianche nei mari del Sud del regista W. S. Van Dyke, in cui alcune donne nuotano sott’acqua mutando continuamente posizione: nella scultura la continuità dei piani plastici, insieme alla sconnessione anatomica del nudo, restituiscono in modo sintetico quell’impressione di un movimento fluido e variato con la chiarezza imposta dalla lavorazione del marmo. L’eccezionale prestito concesso dalla Fondazione Cariverona rappresenta la ricerca estrema condotta da Martini negli anni Quaranta, cui si affianca il dipinto Le cave del marmo (1940), con il quale si ricorda quella profonda insoddisfazione che lo aveva indotto ad abbandonare temporaneamente la scultura per dedicarsi alla pittura.

Le cave del marmo – Arturo Martini (olio su tela, 1940)
Crediti: Collezione privata di Milano
Infatti, la mostra “Arturo Martini e Firenze” – in linea con una visione scientifica del museo inteso come laboratorio di ricerca e formazione – è frutto di una collaborazione tra il Museo Novecento e il Dipartimento SAGAS dell’Università degli Studi di Firenze. Nell’ambito del progetto “Dall’Aula al Museo”, avviato nel 2019 con il prof. Giorgio Bacci, due giovani studentesse del corso magistrale di Storia dell’arte contemporanea, Margherita Scheggi e Valentina Torrigiani, hanno lavorato insieme a Lucia Mannini e allo staff curatoriale del Museo alla organizzazione dell’esposizione.
Infine, Lucia Mannini e Sergio Risaliti ringraziano il Prof. Stringa, considerato il “massimo conoscitore di Arturo Martini”, per il prezioso contributo prestato alla realizzazione di questa mostra.
Foto di: Hubbinar & Ufficio Stampa Museo Novecento (Crediti per Le Collegiali: Collezioni Civiche, dono Alberto Della Ragione)